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Piazza delle Prove / Belvedere

Piazza delle Prove / Belvedere

Acquasparta conserva nel cuore del suo borgo un dedalo di vicoli e viuzze che, seguendo una logica spesso misteriosa, raccontano in qualche modo la storia della cittadina.

Scorci, angoli di incomparabile bellezza di aprono, spesso, in luoghi inaspettati come il meraviglioso belvedere della Piazzetta delle Prove al quale si arriva accedendo alla zona del centro storico che ospita la contrada di San Cristoforo.

Dalla Piazzetta, che nei giorni della Festa del Rinascimento si trasforma in una taverna a cielo aperto, è possibile vedere la catena dei monti Martani e alcuni luoghi di interesse inseriti anche nei nostri percorsi come, ad esempio, la piccola Chiesa di San Michele.

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Chiesa di San Giuseppe

Chiesa di San Giuseppe

Imboccando l’unico vicolo che da Piazza Federico Cesi porta al cuore del Borgo, si entra in via S. Giuseppe e, pochi passi dopo, si incontra la chiesa dedicata al Santo.
Il vicolo di S. Giuseppe, accompagna i passi di chi lo imbocca, con una famosa citazione di Galileo Galilei, lo scienziato Pisano divenuto parte dell’Accademia dei Lincei, fondata dal Duca Federico II Cesi.

“L’intenzione della umana scienza esser d’insegnarci come vadia il cielo e non si vadia al cielo. L’intenzione dello Spirito Santo esser d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo”

Ed ecco, alla vostra sinistra, il piccolo gioiello della chiesa di San Giuseppe. L’edificio si trova all’interno della Contrada di San Cristoforo. 
La confraternita di San Giuseppe, che esisteva già nel XIV secolo era una delle più antiche confraternite del territorio e probabilmente venne fondata a seguito di una predicazione di San Bernardino da Siena, fondatore di numerosi Monti di Pietà e grande francescano.

Lo scopo della confraternita era quello, ovviamente, di promuovere il culto a San Giuseppe, in onore del quale si organizzava una grande fiera che durava dal 12 marzo (giorno di San Gregorio) al 19 marzo (Giorno di San Giuseppe). Fino ad oggi sono sopravvissute le due fiere che segnavano l’inizio e la fine di questo grande mercato.

Non solo fiere, ovviamente, perchè la confraternita si adoperava ad aiutare economicamente le famiglie ebree povere presenti sul territorio, come dimostrano i registri della confraternita.
E’ un particolare incredibilmente interessante, perchè ci conferma la presenza di una piccola comunità ebraica – probabilmente perchè Acquasparta era luogo di fiere e mercanti – che lentamente si convertirono al cristianesimo.

Furono proprio i membri della confraternita a chiedere al vescovo di Todi il permesso di poter costruire una chiesa dedicata al Santo trasformando alcune case della famiglia Sensini, ormai disabitate. Il vescovo concesse il permesso e la chiesa, nelle fattezze attuali, venne portata a termine nel 1742, come dimostra l’iscrizione su una delle pietre del campanile.

Durante il Romanticismo la chiesa venne abbellita con l’altare in legno tutt’oggi visibile, opera di un artigiano acquaspartano di nome Antonio Olivelli. L’altare venne costruito per ospitare la tela raffigurante San Giuseppe con Gesù Bambino, donata da Agata Mimmi Moretti, sorella di Giovanni Mimmi, parroco di Acquasparta, devoto a San Giuseppe al punto che si fece seppellire sotto il pavimento di questa chiesa, come ci racconta l’iscrizione che si trova sul pavimento.

La tela è un’opera molto particolare poiché per una volta la figura si San Giuseppe è protagonista insieme a quella di Gesù e non posta in secondo piano. Gesù, d’altro canto, indica con un dito una nube posta sopra l’altare, come a voler confermare che egli stesso è stato generato dalla “nube” e non da un uomo.
Di lato all’altare, una scultura di Giovanni Dupré, raffigura il Santo. La statua venne donata dalla famiglia Itria – Sciarra.

La statua, in terracotta, rappresenta sempre San Giuseppe con in braccio il Bambino, ma per una volta il Santo non viene rappresentato come un vecchio, ma come un giovane uomo, nel pieno della sua maturità e della sua bellezza e il suo volto, pare quasi somigliare al volto di un Cristo adulto.

Il Bambino spalanca le braccia a forma di croce e San Giuseppe sembra quasi volerlo trattenere dal compiere quel gesto profetico che pare preannunciare la sua passione e la sua morte.

Flowing Acquasparta

Piazza Federico Cesi

Piazza Federico Cesi

Prima del Cinquecento la piazza non esisteva ma esisteva il fossato che difendeva l’antica rocca fortificata, quella che oggi è diventato il maestoso Palazzo Cesi.  A testimonianza di ciò, i due pilastri in pietra posti ai lati del portone del palazzo, testimoniano la presenza di un ponte levatoio che permetteva l’accesso alla Rocca.

Nei primi decenni del Cinquecento furono i Farnese ad acquistare il feudo di Acquasparta, feudo che vendettero nel 1530 ad Isabella Liviani, figlia di Bartolomeo d’Alvino, moglie di Gian Giacomo Cesi, che lo permutò con i suoi possedimenti ad Alviano.

Piazza Federico Cesi

L’attuale piazza, oggi dedicata a Federico Cesi e alle sue gesta da Accademico, era anticamente chiamata “Piazza Nova” o “Piazza del duca”. Venne realizzata nella seconda metà del XVI secolo, obbligando ogni famiglia di Acquasparta a portare 10 some di terra o a pagare una tassa per il trasporto da parte di terzi, al fine di sanare il vecchio fossato.

Oggi, la piazza è un omaggio alla cosmologia galileiana e ai fondatori e appartenenti all’Accademia dei Lincei.
Un vero “Codice da Linci” è inciso sulle pietre di travertino di Piazza Cesi, ad Acquasparta: il codice è composto da dodici strani simboli che ricordano quelli delle costellazioni e vanno letti da destra verso sinistra, all’opposto del normale senso di scrittura. Per decifrarli occorre l’alfabeto linceo, stilato nel 1603 e attualmente conservato negli archivi dell’Accademia dei Lincei, a Roma.
Una volta decodificati, i simboli formano la frase latina: “Sagacius ista”, “più acuto di lei”: si riferiscono alla lince, felino dotato di una vista nitidissima e trasmettono il desiderio di conoscere e di comprendere che animò quattro giovani amici all’inizio del XVII secolo. Volevano avere sensi più acuti di quelli di una lince e con quei sensi, volevano scoprire i segreti del mondo.

Il 17 agosto 1603, Federico Cesi, figlio ventenne del Duca di Acquasparta e della nobildonna Olimpia Orsini di Todi, riunì i suoi amici Francesco Stelluti, giurista e letterato di Fabriano, Anastasio De Filiis, studioso ternano appassionato di astronomia e abile nella costruzione di congegni meccanici, e Johannes van Heeck, brillante medico olandese laureatosi all’Università di Perugia, nella sua dimora in via della Maschera d’Oro, a Roma, per suggellare un patto che renderà immortali le loro gesta.
Insieme fondarono l’Accademia dei Lincei, la più antica organizzazione scientifica del mondo, oggi massima istituzione intellettuale italiana e consulente scientifico e culturale del Presidente della Repubblica. I quattro si proclamarono “discepoli della natura al fine di ammirarne i portenti e ricercarne le cause” e adottarono come emblema una lince, con il motto che ora li celebra nella Piazza di Acquasparta.

L’essenza del loro sodalizio venne stilata in un ampio statuto programmatico, il Lynceographum, e nella cerimonia inaugurale, il 25 dicembre dello stesso anno, Federico – eletto Princeps perpetuo lynceorum – consegnò a ciascun “fratello” una collana d’oro con un pendente, che verrà poi sostituita da un anello con uno smeraldo rettangolare su cui è incisa una lince. È l’anello linceo, di cui oggi restano le impronte su ceralacca nei documenti accademici.

In un secolo in cui superstizioni e pregiudizi minacciavano di soffocare l’alba della ricerca sperimentale, base della scienza moderna, le riunioni dei quattro amici vennero osteggiate dal Duca di Acquasparta, che finì col denunciare van Heeck al Santo Uffizio per sospetta eresia. I giovani, costretti a disperdersi, decisero di sfruttare il simbolismo e le allegorie proprie dell’alchimia in nome della scienza. E così inventarono il codice, formato da segni analoghi a quelli ricorrenti nel simbolismo esoterico, e lo utilizzarono per scriversi lettere e stilare documenti.

Piazza Federico Cesi

Federico si trasferì ad Acquasparta, nel palazzo di famiglia, da dove intrattenne una fitta corrispondenza con i suoi affiliati utilizzando nomi in codice concordati in precedenza, che in qualche modo riflettono le inclinazioni di ognuno di loro: il principe era il Coelivagus, per la sua passione verso il cielo e le stelle, Stelluti è il Tardigradus, per la sua natura riflessiva, De Filiis l’Eclipsatus, per la sua attitudine allo studio dei fenomeni planetari, e van Heeck l’Illuminatus, il più estroso e brillante dei quattro.

Passarono alcuni anni e i quattro studiosi poterono finalmente riunirsi ad Acquasparta per animare l’Accademia di nuovi progetti e nuovi soci, come Giovanbattista Della Porta, il mago scienziato di Napoli.

Ma il vero colpo grosso, avvenne il 25 aprile del 1611 quando l’Accademia accolse tra i suoi soci lo scienziato pisano: Galileo Galilei che, da quel momento in pi, firmerà tutti i suoi lavori con l’appellativo “Linceo”. È l’inizio di una profonda e sincera amicizia fra lo scienziato e il giovane Federico e la svolta nel percorso intellettuale dell’Accademia, che abbandonerà l’aspetto magico-esoterico che l’aveva accompagnata nei primi anni della sua esistenza per immergersi nel rivoluzionario punto di vista del grande scienziato pisano, stimolandolo nelle sue ricerche.

Federico ospitò Galileo ad Acquasparta nell’aprile del 1624. Lo accompagnò alle Cascate delle Marmore e in barca sul lago di Piediluco. Durante la gita che Galileo illustrò agli amici il principio del moto relativo dei corpi, lanciando in aria dalla barca le chiavi della camera di Francesco Stelluti, e rischiando di farle cadere in acqua, come narra lo stesso accademico fabrianese nel resoconto di quella indimenticabile giornata. Altri documenti dipingono Federico e Galileo intenti a osservare le stelle con la nuova invenzione di Galileo – il cannocchiale – attraverso le arcate della specola di Palazzo Cesi, e Francesco, Anastasio e Johannes che passano intere giornate nelle stanze-laboratorio del Palazzo ducale a sperimentare l’utilizzo dell’occhialino (prototipo dell’odierno microscopio, e così ribattezzato proprio dai Lincei), altro strumento galileiano donato all’accademia dal grande scienziato.

E’ per rendere omaggio alla splendida avventura di questi giovani amici, e per ricordare uno dei luoghi simbolo dell’amore dell’uomo per la conoscenza, che oggi nelle pietre ornamentali di Piazza Cesi, oltre al “Codice da linci”, sono intagliati degli strani nomi: Coelivagus, Tardigradus, Eclipsatus e Illuminatus, inscritti dentro quattro grandi cerchi di travertino, che sembrano orbitare – come altrettanti pianeti – intorno ad un quinto cerchio, il più grande. Quello dedicato a Galilei. Da quest’ultimo sgorga una fontana, simbolo del sapere di cui lo scienziato ci ha fatto dono.

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Chiesa di Santa Cecilia

Chiesa di Santa Cecilia

Durante i lavori per la installazione dell’impianto di riscaldamento, a metà degli anni 1970, al di sotto del presbiterio, sono state rinvenute mura e pietre, fotografati, certamente anteriori al secolo XI. Tali reperti rendono plausibile l’affermazione del Pianegiani dell’antichità della presenza di un luogo di culto all’interno di Acquasparta e l’ipotesi del formarsi di una comunità cristiana fin dai primi secoli dell’era cristiana. Ipotesi avvalorata dai forti segni cristiani lungo la vecchia Flaminia, quali le Catacombe di Villa S. Faustino (Massa Martana) e la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano in Carsulae. All’interno troviamo otto Cappelle e in esse, fino all’inizio del XX secolo, si trovavano sette altari e, in quella posta all’ingresso di sinistra, un battistero del 1575.

Gli altari restanti sono dedicati ai Santi Nicola, Barbara e Restituta (seconda Cappella all’ingresso di sinistra), al SS.mo Crocifisso (Cappella funebre delle nobili famiglie Liviani – Cesi), altare della Madonna del Rosario (terza cappella all’ingresso di sinistra).

Chiesa di santa Cecilia - Interno

Al centro dell’abside, sotto l’arco trionfale, l’altare maggiore dedicato a S. Cecilia Vergine e Martire, patrona principale della parrocchia e della città di Acquasparta.
Al centro dell’arco trionfale, sorretto da due Angeli, lo stemma della ecc.ma famiglia Cesi, dal XVI secolo signori di queste terre e benefattori della Collegiata di S. Cecilia fino all’inizio del XIX secolo.

Nella Basilica e Insigne Collegiata di S. Cecilia si trovavano almeno venti tele rappresentanti i misteri della vita del Signore, la Beata Vergine, e a diversi Santi, molti dei quali esponenti di spicco della grande Riforma cattolica operata all’indomani del Concilio di Trento. Purtroppo di esse ne sono rimaste solamente sette che sono state restaurate a partire dal 1992 e che, nonostante l’usura del tempo e l’incuria degli uomini, oggi ridanno vita e splendore alla Collegiata rinnovata e riportata al suo antico splendore nel 1990 per la generosità e la fede della Comunità parrocchiale. Le tele, collocate nelle cappelle, sono opere di diversi pittori che vanno dalla fine del XVI secolo alla seconda metà del XVIII secolo. Di esse diamo le notizie che abbiamo potuto raccogliere dopo accurate e pazienti ricerche.

Al centro dell’Abside, al di sopra del Coro e dell’Altare Maggiore, una tela rappresentante i Santi Stefano e Cecilia Il quadro è opera del pittore Barla da Terni collocato al momento della riapertura al culto della chiesa nel 1761.

Nella prima cappella sulla destra, partendo dall’altare maggiore e dirigendosi all’uscita, si trova la Cappella di S. Carlo dell’ecc.ma Casa Cesi con stemma gentilizio collocato nell’arco. La tela (inizio XVIII sec.) raffigura S. Carlo Borromeo e S. Filippo Neri ai piedi della Vergine con Bambino.
Da notare, tra i due Santi, S. Cristoforo con il Bambino Gesù in spalla. La raffigurazione di quest’ultimo, inconsueta nella iconografia dei due grandi Santi della Riforma Cattolica, va ricercata nel fatto che la tela fu donata, nel 1711, da don Cristoforo Rossi, Priore della Collegiata, e dalla devozione popolare, assai diffusa, per questo Santo protettore dalle tempeste e dalle alluvioni.
Da notare, al di sopra della tela, lo stemma di S. Filippo, “cioè un cuore infiammato” sempre in stucco. Non si può dimenticare il legame di amicizia che legava i Cesi a S. Filippo Neri e le numerose visite effettuate dal Santo, in Roma, alla potente Famiglia.

Nella Cappella successiva, detta dell’Assunta e dei Santi Pietro e Paolo, è stata collocata (1992), dopo il restauro, la tela della Adorazione dei Pastori, originariamente posta nella Cappella Sensini, (la prima di destra entrando, appena la porta del Campanile). Questa tela, fine del XVI sec o inizio del XVII, la cui bellezza e raffinatezza, colpiscono qualsiasi visitatore, è attribuita dagli inventari del settecento, esistenti presso l’Archivio della Curia Vescovile di Todi, “al famoso pittore Domenichini”; tuttavia è molto più attendibile la recente attribuzione a Riccardo Ripanelli che, all’inizio del XVII secolo, lavorò in palazzo Cesi.
Nell’opera si noti come in uno spazio così limitato il pittore è riuscito a collocare un considerevole numero di personaggi e che, pur muovendosi nei canoni del manierismo, presentano elementi di ricca creatività.
Essi sono collocati in un ambiente tipicamente rinascimentale con evidenti richiami al mondo classico (come la colonna caduta e spezzata) e con la costruzione della scena del mistero della Natività avente come linea focale la diagonale che dall’alto (a sinistra) giunge in basso (a destra) sottolineata da una luce calda e delicata. Da osservare, inoltre, la straordinaria bellezza e vivacità dei colori, in primo luogo l’ azzurro e il rosso.

Successivamente si veda la tela dei Santi Pietro e Paolo ai piedi della “Grande Madre di Dio” (sec. XVII), collocata originariamente nella Cappella ove ora si trova l’Adorazione dei Pastori. Apparteneva, originariamente, alla Famiglia Granori (XVII sec.) e, successivamente (XVIII), alla Famiglia Paradisi di Terni. La tela si trova, attualmente, nella Cappella (la terza dall’altare maggiore verso l’uscita sulla destra) priva, da sempre, di altare, perché cappella di passaggio per quanti entravano in Chiesa da ponente. L’esistenza di questa porta è visibile dall’esterno, lungo via Colonna. In essa c’è da notare una lapide che ricorda Fulvio Pontani, proveniente da Spoleto e morto nel settembre 1622, “Prioris huius Basilicae”. Questa lapide attesta che la Chiesa di S. Cecilia gode del titolo di “Basilica” che si coniuga con quello di “Insigne Collegiata”.

Nella quarta Cappella di S. Nicolò, partendo da destra dall’altare maggiore verso l’uscita, troviamo “Un quadro ovato, dipinto dal sig. Barna di Terni in tela (XVII – XVIII sec.), e rappresenta S. Nicolò vescovo di Elvira, che vestito d’ abiti sacri in rito greco miracolosamente trasporta un giovinetto cristiano che trovasi schiavo. Al di sopra vedesi S. Barbara colla spada in mano in atto di vittoria. A lato sinistro S. Restituta con palma in mano. Nell’angolo destro si vede un angelo che presenta il diadema”. Si tenga presente che questa cappella e le figure dei tre santi rappresentati nella tela furono realizzate in ossequio a quanto ordinato da mons. Camaiani in occasione della visita pastorale del 1574 a seguito della demolizione delle tre chiesine, ormai fatiscenti, situate lungo la Flaminia nel territorio di Acquasparta, e dedicate ai tre santi dipinti sulla tela su ricordati. E’ bene ricordare che le pietre della tre chiesine, demolite con il benestare di mons.
Camaiani nel 1574 e del vescovo mons. Angelo Cesi (1593), furono utilizzate per la ricostruzione e ulteriore innalzamento del campanile della collegiata, in parte crollato, in quegli anni a causa di un fulmine abbattutosi su di esso. Tra gli stucchi, rappresentanti temi religiosi, si osservi lo stemma gentilizio dei signori Spada di Terni.
Appena l’ingresso principale, sul lato destro, si trova la lapide che ricorda l’edificazione della Chiesa nell’attuale struttura architettonica avvenuta nel 1761.

Cappella del SS.mo Crocifisso. Qui si trovano le tombe delle famiglie Liviani e Cesi con due lapidi e relative iscrizioni fatte collocare da Isabella Liviana Cesi nel 1582, nel 74° anno della sua età e qui fu sepolta essa stessa e, nel 1630, il Principe Federico il Linceo, fondatore dell’omonima Accademia (1603).
Al di sopra dell’altare è posto “un quadro in tela (seconda metà del XVI sec.) con cornice di legno dorato e intagliato con l’immagine in mezzo del SS.mo Crocifisso, a piedi la SS.ma Vergine, dall’altra parte S. Giovanni Evangelista, S. Maria Maddalena, e nell’angolo di esso in cornu evangelii il ritratto dell’ecc.ma Duchessa Isabella Liviana Cesi Fondatrice”. L?autore è Giovan Battista Lombardelli che ricevette il pagamento della tela il 12 maggio 1581, così come si legge nel registro delle uscite della Cappella del SS. Sacramento.

Cappella del SS.mo Rosario immediatamente adiacente a quella del Crocifisso.
“Al di sopra dell’altare un quadro in tela con le immagini della Madonna SS.ma del Rosario, S. Domenico e S. Caterina da Siena adornato di stucchi con i misteri del Rosario a lato dipinti parimenti in tela. Sostenuto da due colonne per parte con due Angeli, che sostengono il diadema, e con doppia cornice parimenti di stucco”.

Dei medaglioni raffiguranti i misteri del rosario, collocati lungo i lati del quadro, conosciamo l’autore Niricani da Parma e l’anno della realizzazione 1711. La tela, di cui non possiamo con certezza affermare essere dello stesso artista, è, comunque, sicuramente della fine del XVII secolo o inizio del XVIII. Anche questa tela è stata restaurata nell’anno 1996 con il contributo esclusivo di due persone generose di questa parrocchia.

Non si possono dimenticare l’altare Maggiore e il Coro. L’altare, risalente alla seconda metà del XVIII sec. fu portato in questa chiesa, completamente restaurata, nel dicembre 1990, dalla vicina Chiesa di S. Giuseppe. Il Coro è antecedente il tempo della ristrutturazione della chiesa avvenuta nella seconda metà del XVIII secolo. Esso, in noce, pur sobrio nelle linee e nelle forme, corona e completa la bellezza classicheggiante della Basilica.

Dietro l’altare maggiore è stato collocato, in occasione del giubileo del 2000, il crocifisso antichissimo (inizio del XIV sec.) di scuola umbra che fino al 1888 si trovava in S. Giovanni de Budes in totale abbandono a seguito della cacciata dei Cavalieri di Malta, proprietari della medesima Chiesa, avvenuta al indomani dell’Unità di Italia.
Fu la popolazione di Acquasparta a portarlo nella Chiesa di S. Francesco ove è rimasto fino al 1997, all’indomani del terremoto. Restaurato da una coppia di sposi di questa comunità è stato collocato in S. Cecilia per assecondare un loro desiderio – voto, ricevuto anche il benestare della Sopraintendenza ai Beni Culturali dell’Umbria.

All’esterno sul lato destro della facciata della chiesa si può ammirare il possente campanile. Quest’opera, che fino al 1761 rimaneva totalmente esterna alla chiesa, ha subìto continui interventi riguardanti l’altezza e più ancora la piramide o cuspide che si trovava, fino alla seconda metà degli anni venti di questo secolo ormai concluso, alla sua sommità. Più volte fu colpito da fulmini che provocarono gravi danni anche con l’abbattimento della piramide e parte della stessa torre campanaria. In esso fu collocato, fin dalla metà del 1500 un orologio meccanico, opera di un maestro di Arezzo.

Subito appresso troviamo la facciata esterna della Cappella del SS.mo Crocifisso con la data 1582, anche essa esterna alla vecchia chiesa romanica. A fianco la casa del Priorato e di fronte il Palazzo ora Montani, anticamente del Capitolo di S. Cecilia.

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Via Stelluti

Via Stelluti

Nato nel 1677, Francesco Stelluti fu uno dei quattro fondatori dell’Accademia dei Lincei, insieme a Federico Cesi, Joannes Van Heek e Anastasio de Filiis. Caro amico di Federico Cesi, sono a lui indirizzate alcune delle lettere più significative inserite nel “Carteggio Linceo” del Gabrieli.
In occasione delle seconde nozze del Principe Linceo, Stelluti compose l’opera “Il Pegaso – componimento dedicato a Federico Cesi ed Isabella Salviati” nel 1617.

All’interno dell’accademia, aveva il ruolo di Consigliere Maggiore, poi Procuratore Generale e infine Amministratore, oltre ad insegnare matematica e astronomia.
Ogni accademico aveva scelto per se un appellativo, da usare all’interno del sodalizio e lo Stelluti scelse “Tardigradus” nomignolo che di certo rispecchiava la sua indole tranquilla e prudente. L’astro protettore era invece Saturno che, in astrologia, è considerato il tutore della capacità riflessiva e il suo motto era, invece “Quo serius eo citius” (il più lento, è il più veloce) sottolineando la sua convinzione secondo la quale è solo attraverso un’attenta e ragionata riflessione che si arriva alla Sapienza.

Nel 1604 si impegna nella scrittura del saggio “Loicae Physicae et Metaphysicae brevissimum compendium” e nello stesso anno, a causa del duro intervento di Federico Cesi I, padre di Federico il Linceo, gli Accademici sono costretti a disperdersi e lo Stelluti ritorna temporaneamente a Fabriano, per poi trasferirsi a Parma presso la corte dei Farnese.
L’anno successivo viene raggiunto dal Van Heek, che nei mesi precedenti era fuggito per mezza europa al fine di fuggire dall’accusa di omicidio ai danni di uno speziale e dalla quale riuscì a scagionarsi grazie all’intervento del Cesi e dello Stelluti. Durante questa breve ma intensa convivenza, lo Stelluti inizia ad interessarsi a quello che oggi chiamiamo “disegno scientifico” come dimostrano alcune tavole contenute nel taccuino dello stesso Van Heek.

Intorno al 1609, superato lo scontro con il padre, il Cesi riunisce nuovamente gli accademici al Palazzo dicale di Acquasparta e l’anno successivo il Duca e lo Stelluti viaggiarono fino a Napoli a visitare il nuovo Linceo, Giovan Battista Della Porta. Sempre nel 1610 cominciano i lavori per la stesura del “Tesoro Messicano”.
La leggenda vuole che, in compagnia di Federico, si recò presso l’attuale Foresta Fossile di Dunarobba per scoprire i cosiddetti “metallofiti”, scoperta che il Linceo lo incoraggiò ad approfondire e studiare e che trovò compimento nell’opera “Trattato del legno fossile minerale nuovamente scoperto” che venne pubblicato solo dopo la morte del Cesi, nel 1637.

Nel 1612, dopo la nomina a Procuratore ed Amministratore dell’intera Accademia, grazie alle sue competenze in campo legislativo, acquista casali e terreni dove condurre le sperimentazioni lincee. Assume l’incarico di provvedere a stampare le pubblicazioni dell’accademia, incarico che si rivela piuttosto complesso anche a causa dei contenuti di alcune ricerche. Sempre a lui è affidato l’incarico di provvedere all’organizzazione dell’apertura della seconda sede dell’Accademia a Napoli, presieduta da Della Porta.

Vive ad Acquasparta, nel Palazzo Ducale, dal 1618 al 1624 dove lavora a diverse pubblicazioni occupandosi, tra le altre cose, della redazione del “Tesoro Messicano” aiutando un Cesi già gravemente ammalato.
Quando, nel 1630, il Cesi viene a mancare, Francesco Stelluti scrive un’accorata lettera al Galilei, per informarlo del terribile avvenimento.

“Signor Galileo mio,
con mano tremante e con occhi pieni di lacrime vengo a dare quest’infelice nuova a V.S. della perdita fatta del nostro Signor Principe, Duca d’Acquasparta, per una febbre acuta sopra giuntagli, che hieri ce lo tolse con danno inestimabile per la repubblica litteraria per tanto belle compositioni, che tutte imperfette ha lasciato di che n’ho un dolore inestimabile…[…]”

Dopo la morte del Principe, collega e amico, lo Stelluti continua il lavoro dell’Accademia, pubblicando alcune opere e salvaguardando quelle già presenti. E’ merito suo, dunque, se vengono proseguite le ricerche scientifiche e viene impedita la dispersione dell’immenso patrimonio scientifico e letterario dell’intera Accademia.
Traferitosi di nuovo a Roma, trascorrerà gli ultimi anni della sua vita vivendo per lunghi periodi presso la famiglia Cesi che, ormai, era diventata anche la sua famiglia come dimostra il componimento del 1632 dedicato al matrimonio tra “Federico Cesi e Giulia Veronica Sforza Manzoli”.

Francesco Stelluti muore a Roma nel 1652 consegnando al mondo l’eredità di alcuni tra i più importanti trattati scientifici e biologici mai pubblicati.

Lungo Via Stelluti, in Acquasparta, è presente una delle Pizzerie più antiche del paese, la “Pizzeria Rocchi” anche rosticceria, dove gustare alcuni tra i piatti più buoni dell’intero territorio per chi non ha troppo tempo da dedicare alla sosta pranzo.
Il giorno di chiusura della Pizzeria Rocchi è il lunedì.

Acquasparta Corso dei Lincei Palazzo Cesi

Corso dei Lincei

Corso dei Lincei

Il Corso dei Lincei è il corso principale del borgo di Acquasparta, quello che accompagna alla Piazza Principale, di fronte al palazzo Ducale.
E’ così chiamato in onore dei componenti dell’omonima Accademia, fondata dal Duca Federico Cesi II, altrimenti conosciuto come “il Linceo”. I fondatori di suddetta Accademia erano quattro: Federico, promotore dell’iniziativa, Francesco Stelluti, Anastasio de Filiis e Joannes Van Heek. I quattro amici e colleghi furono i primi a fondare un’Accademia scientifica con i principi e gli scopi che caratterizzavano quella fondata nel 1603 presso il Palazzo Cesi di Roma in Via della Maschera d’Oro.

Al Corso dei Lincei vi si accede dall’attuale porta principale del paese, quella ricavata dalle mura cittadine che, in passato, vennero attaccate duramente da Altobello di Chiaravalle. Un attacco che gli costò la vita: il Chiaravalle, infatti, venne trascinato lungo il corso dalla folla inferocita e immolato nella piazza principale dove la Sparviera, gli cavò il cuore dal petto.

Lungo il Corso dei Lincei è possibile incontrare alcuni negozi, tra i quali un bar e gli accessi laterali ai giardini di Palazzo Cesi.
Il primo, appena dopo il bar, era usato negli anni ‘60 come giardino dai cittadini in vi era allestita una pista da ballo nota come “Amerinetta”. Nel corso dei decenni venne utilizzata anche come cinema all’aperto, il cui sfondo era niente meno che il maestoso loggiato di Palazzo Cesi.

Poco più avanti vi è il portone d’ingresso al Palazzo in cui visse il pittore Carlo Quaglia le cui collezioni sono state esposte, tra gli altri eventi, anche alla Biennale di Venezia.
Quasi dirimpetto all’abitazione del Quaglia, vi è l’ingresso laterale di Palazzo Cesi, quello dove presumibilmente vi entravano con i cavalli e le carrozze che poi accedevano ai sotterranei e quindi alle scuderie.

Il corso si apre su Piazza Federico Cesi e prosegue in Corso Umberto I, che accompagna fino alla Basilica di Santa Cecilia e alla sede del Comune di Acquasparta.

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Porta principale e le mura

Porta principale e le mura

Il centro storico di Acquasparta è protetto da una cinta muraria appartenente all’antica rocca fortificata che sorgeva al posto di quello che oggi è noto come Palazzo Cesi.

La rocca venne eretta per proteggere il borgo dai continui attacchi che venivano organizzati da Todi, Terni e Spoleto, anche a causa di una posizione geografica sicuramente allettante. Accadde poi che intorno ai primi anni del Cinquecento, dopo esser stata dichiarata libera, Acquasparta venne minacciata dalle mire espansionistiche dei Ghibellini di Todi, capitanati da Altobello da Chiaravalle. Tra il 15 e il 17 agosto, il Chiaravalle assediò le mura di cinta col fine di penetrare all’interno della città e conquistarla. Dopo essersi stabiliti sul territorio di Acquasparta, il Chiaravalle, per porre la propria signoria sul feudo, impose lo sterminio di tutti i maschi della famiglia Bentivenga, gettando addirittura i bambini dalle finestre.

Questo episodio così cruento, non fu perdonato da Papa Alessandro VI che inviò in Acquasparta un contingente di circa quindicimila uomini, per riportare il territorio sotto il controllo della Sede Apostolica. L’esercitò assediò il paese dove si erano rifugiati circa ottocento ghibellini, oltre alla popolazione ormai stremata da mesi e mesi di terrore e battaglie. Il grande disequilibrio tra le due fazioni (800 ghibellini da un lato, 15.000 soldati del papa dall’altro) diede vita ad una durissima battaglia che vide l’uso di quasi 3000 libbre di polvere da sparo, utilizzate per abbattere le mura. Quando accadde, i Chiaravalle e i suoi seguaci vennero linciati dalla popolazione esausta. Altobello, dopo esser stato trascinato lungo il Corso fino alla piazza, venne torturato dalla gente, la Sparviera gli cavò il cuore e venne poi decapitato. La testa fu inviata a Todi come un trofeo mentre il corpo, pare, fu mangiato dalla gente inferocita.

Le mura di Acquasparta, a quel punto, vennero demolite sistematicamente e le pietre vendute a chi ne fece richiesta, lasciando così il paese diroccato e praticamente disabitato e il territorio venduto alla Camera Apostolica.

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Chiesa del Giglio e Porta Vecchia

Chiesa del Giglio e Porta Vecchia

Negli Inventari n° 15 del 1774, conservato presso l’Archivio Vescovile di Todi, si legge:
La Chiesa della Madonna del Giglio è situata sotto la porta vecchia fuori della terra nei proprj beni di essa Chiesa“.
Questa Chiesa apparteneva alla Compagnia della Madonna del Giglio, costituitasi il 1°novembre del 1300 ed è la più antica tra le numerose Confraternite o Compagnie che sono nate nel secondo millennio cristiano. Aveva, oltre le finalità di culto, anche quella di accogliere i poveri e i malati nel suo “Hospitalis Sancte Marie de lilio”, costruito sul lato nord della Chiesa.
Con la confisca dei suoi beni, avvenuta con l’unità d’Italia, nel giro di 50 anni la Compagnia si è estinta.

Chiesa del Giglio

La Chiesa “si crede fondatamente esistere fin dal decimo quarto secolo”.
Tale ipotesi è confortata dall’affresco esistente al centro dell’altare e raffigurante la Madonna del Giglio con Bambino risalente, appunto, a quel periodo.

La chiesa come oggi si presenta è dell’inizio del XVII secolo e ne abbiamo conferma con la data 1617 scritta sulla pianella esterna che si trova sulla gronda, all’altezza della porta laterale (lato est o di fronte alle mura).
“Fu compita l’anno 1630 e benedetta nell’istesso anno colle facoltà di mons. Lodovico Cenci vescovo di Todi”.

La chiesa, nella forma attuale, è attribuita a Giandomenico Bianchi, noto per la costruzione, di qualche anno antecedente, del palazzo Cesi e della Chiesa del Crocifisso in Todi.
“La facciata è fatta di travertini ben lavorati”. E’ di una sola navata con cornicione intorno di mattoni. Vi sono tre archi per parte destinati alle cappelle. Di fronte l’arco maggiore e due gradini con tribuna fatta a volta e a cupola è l’altare maggiore, in legno, con figure intagliate come l’Eterno Padre ed Angeli con gigli in mano, opera di artigiani locali, probabilmente di Narni. Al centro troviamo l’affresco raffigurante Madonna col Bambino e il Giglio quasi completamente distrutto da mano barbara negli anni 70 – 80 del XX sec. Ai lati, coperti dalla cornice lignea, si intravedono altre figure di Santi, una delle quali è S. Antonio Abate.

In questa Chiesa si conservano 6 tele, una Pietà in travertino del XV sec. detta “Madonna Teutonica”. La prima tela, ora collocata sulla destra, entrando, rappresenta la Natività di Maria (XVIII sec.), restaurata all’inizio degli anni ‘90 del secolo appena concluso.
La seconda , sempre sulla destra, con effigie della Madonna SS.ma, S. Anna, S. Federico, e S. Caterina da Siena. E’ dell’inizio del XVII sec. e da alcuni viene attribuita, per lo splendido volto della Madonna, al Polinori. E’ stata restaurata, gravemente danneggiata, all’inizio degli anni ’90.
La terza, a destra all’interno del presbiterio, una Sacra Famiglia del XlX sec. che andò a ricoprire l’affresco trecentesco, che si trova nell’altare maggiore, fino agli anni 80 del xx sec.
Dall’altra parete, di fronte alla tela della Sacra Famiglia, si trova il grande quadro in cui sono effigiati S. Domenico, la Madonna SS.ma, S. Maria Maddalena, S. Caterina, con altre effigie di Domenicani in atto di adorazione con cornice di legno nero, e filetti d’oro.
Si trovava sopra dell’altare dedicato allo stesso Santo di Ius patronato della Famiglia Spada di Terni. Si conserva ancora, a metà della Chiesa entrando a sinistra, lo stemma della stessa famiglia in pietra.
Infine all’ingresso, sulla destra entrando, è stato collocato un quadro di tela proveniente dalla Chiesa di S. Antonio Abate della medesima Compagnia della Madonna del Giglio che si trovava sul lato ovest della piazza F. Cesi. Demolita la chiesa alla fine del XIX secolo, ormai fatiscente, i Confratelli collocarono in questa chiesa la tela già ricordata raffigurante “la Madonna SS.ma col Bambino in braccio, S. Giuseppe, S. Giovanni Battista, S. Antonio Abate, S. Sebastiano con alcune immagini di fratelli col sacco in atto di adorazione”. La tela si ritiene risalire alla fine del XVI secolo inizio del XVII. E’ stata restaurata all’inizio degli anni ’90.
Apparteneva alla medesima la chiesa di S. Antonio Abate e posta sull’altare dell’Addolorata “statua in travertino assai antica, rappresentante la Madonna SS.ma Addolorata col SS.mo suo Figlio in braccio morto”. Questa statua o Pietà era detta anche Madonna teutonica.

Vi sono altre immagini, di diversa grandezza, nel nostro territorio. Furono realizzate nel secolo XV con molta probabilità da Benedettini Tedeschi (da cui il nome “teutonica”) presenti per circa cento anni nelle nostre zone. Anche essa fu collocata in questa chiesa della Madonna del Giglio e nella nicchia come oggi appare al momento della demolizione della piccola Chiesa di S. Antonio Abate.

Si trova, inoltre, nella Cappella Spadaccini la tela raffigurante la SS.ma Trinità (XVI – XVII sec.) (seconda entrando a sinistra) che era nella chiesa omonima costruita nel XVI sec. e attaccata alla Chiesa di S. Francesco sul lato nord. Fu demolita, ormai fatiscente, nel 1926 con la motivazione di creare maggiore spazio alla più famosa chiesa di S. Francesco per volontà della potente famiglia Santini. La tela ci offre una iconografia, da tempo consolidata, sul mistero della Trinità.

Questa chiesa, a partire dal 19 giugno 1738, fu chiamata anche “Chiesa del Crocifisso”. Si cominciò “a venerare con particolare culto, in detta data, il SS.mo Crocifisso morto e schiodato senza croce posto ivi (in una cassa di legno) dalla pia mano di don Mattia Amadio di Mucciafora di Norcia, parroco del detto castello, sua patria Diocesi di Spoleto, missionario apostolico”.
Il crocifisso, ora ricordato, assai antico (XIV sec.), ancora esiste con relativa urna. Il crocifisso, restaurato nel 1998, fu collocato nella chiesa di S. Giuseppe e collocato a fianco dell’altare nell’anno 2000. Anche la Compagnia della madonna del Giglio aveva il suo Monte Frumentario.

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Chiesa di San Francesco

Chiesa di San Francesco

La Chiesa, anch’essa posta fuori le mura di Acquasparta, fu fatta costruire, nel 1294, dal Cardinale Matteo Bentivenga d’Acquasparta, padre generale dei Padri Conventuali. In un antico documento leggiamo: “Nell’anno 1290 era in questa terra in pieno vigore la fede di Gesù Cristo, perché da questa comunità furono qua chiamati i Padri Conventuali…”.

Gli stessi vissero nel Convento costruito intorno alla Chiesa e officiarono la medesima fino alla occupazione napoleonica o, più comunemente detta, del “Governo dei Francesi”. Scacciati i padri francescani la chiesa fu custodita e officiata dal priorato di Acquasparta e il Convento verrà demolito per volontà della famiglia Santini all’indomani della Prima Guerra Mondiale. La stessa vi costruì l’albergo Amerino.
Medesima sorte toccò all’antica Chiesa della SS.ma Trinità, attaccata, nel lato Nord, alla Chiesa di S. Francesco. Rimane, dietro l’abside della chiesa, lato est, il grazioso e piccolo chiostro francescano recentemente riacquistato dal Comune e restaurato. In esso è da ammirare la splendida Sala che un tempo era certamente sede di un ospedale. La medesima è ora una splendida sala per manifestazioni culturali. La chiesa, espressione tipica dell’architettura francescana “povera”, è un esempio assai interessante di quell’arte di transizione dal romanico al gotico.

Si hanno notizie di pregevoli affreschi del XV sec. esistenti un tempo all’interno, affreschi di cui non è stato possibile trovarne tracce.
Sembrerebbe che, prima della Chiesa e del Convento, vi fosse un lebbrosario poi unito al Convento. All’interno vi è una interessante statua lignea rappresentante la Vergine col Figlio in braccio della prima metà del XIV sec., invocata da sempre, dagli acquaspartani, con il titolo di Madonna della Stella.
Di queste statue lignee ve ne sono altre sul nostro territorio, a cominciare da quella conservata in S. Maria in Camucia in Todi, quella di Collazzone, di Castel dell’Aquila.

Da notare la policromia ancora originale, la cui conservazione, forse, fu favorita dai vestiti, assai preziosi, che la ricoprivano fino a qualche decennio fa. Di essi se ne conservano una ventina e il più antico risale alla fine del cinquecento. Assai prezioso è quello donato dalla famiglia Cesi nella seconda metà del XVI sec. L’immagine di questa Madonna compare in tutta la storia di Acquasparta, specialmente in occasione di pestilenze, di terremoti, di guerre.
E’ ad essa che l’intera comunità ha fatto devoto riferimento.

Si conserva, inoltre, una tela francescana copia della celebre tela di Margheritone di Arezzo che si trova in Firenze agli Uffizi e raffigurante S. Francesco e, sui lati, noti episodi della vita del Poverello di Assisi. Da ultimo si deve ricordare l’antichissimo Crocifisso (sec. XIV), portato in questa chiesa da S. Giovanni de Budes nel 1888, a seguito dell’abbandono della stessa, dopo la confisca dei beni, da parte del Regno d’Italia, a danno dei Cavalieri di Malta.
Il crocifisso e la statua della Madonna della Stella sono ora conservati nella chiesa parrocchiale per motivi di sicurezza.

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Viridarium

Viridarium

Il Viridarium Cesi o “Viridario Magno” è un vasto spazio verde, in parte recintato e terrazzato, situato appena fuori le mura medievali, nei pressi della Porta Vecchia o Porta Ternana.

L’area, cui si accede tramite i resti di un portale ad arco, presenta un palazzetto su tre piani di probabile impianto cinquecentesco.

La facciata mostra, al piano terra, tre fornici, due dei quali tamponati, che testimoniano l’esistenza di un originario piccolo porticato.

Sulla facciata, al culmine del secondo piano, è presente una cornice con quattro gocciolatoi a protomi leonine, che richiamano quelli presenti sulla facciata del palazzo ducale.

Analoghi gocciolatoi, posti alla stessa altezza, ma privi di protomi, parzialmente coperti dalla vegetazione, sono presenti su altri lati dell’edificio.

Nel breve tratto di muro addossato alla metà inferiore del lato destro dell’edificio, pressocchè allineato alla facciata, si apre un nicchione ricco di tartari che potrebbe aver ospitato una fontana a mostra d’acqua.

Proprio in quest’area, come testimoniato dal medico e naturalista Giovan Battista Winther, sono state piantate da Federico Cesi molte specie arboree, tra cui esemplari di Taxus baccata L, i cui campioni di piccoli rami con foglie, fiori e frutti utilizzò per la sua Syntaxis Plantaria e di Chamaerops humilis L. (palma nana), specie con fiori ermafroditi e unisessuati, che gli fornirono i campioni raffigurati nella tavola Plantae et Flores ms. 976 c. 171

Fonte: I ” Travagliatissimi negotii” e le “filosifiche fatighe” di Federico Cesi il linceo nel “combattuto ritiramento” di Acquasparta: Il Viridarum cesiano, Gilberto De Angelis